Scrivere di Siria è sempre molto difficile.
Non è tanto una questione di avere o non avere le idee chiare, quanto piuttosto di mettersi nei panni di chi poi leggerà l’articolo.
Riallacciare le fila di un conflitto che dura oramai da 8 anni che conta quasi 300mila morti (stima del tutto approssimativa) 5 milioni di rifugiati e quasi 7 milioni di sfollati interni richiederebbe un trattato.
La maggior parte delle persone sa che in Siria è in atto una guerra che ha letteralmente devastato il paese, ma se poi si va ad approfondire il livello di conoscenza, ci si rende subito conto che le informazioni sono del tutto approssimative.
Nessuno sa esattamente quali e quanti soggetti abbiano preso parte ad un conflitto che molti si ostinano ancora a definire “guerra civile”: sul campo, a fronteggiare i soldati del Syrian Arab Army (SAA) e gli alleati russi e iraniani (presenti sul territorio in maniera legale in base al diritto internazionale, perché invitati dal legittimo governo rappresentato all’ONU ad affiancare l’esercito), si contano combattenti provenienti da mezzo mondo spalleggiati da paesi quali Turchia, Arabia Saudita, Qatar, USA, Francia, Gran Bretagna, Israele solo per citare quelli che hanno svolto un ruolo più attivo.
Questo punto va chiarito una volta per tutte. In Siria si è svolta una guerra per procura.
I manifestanti che scesero in piazza nel 2011 furono quasi subito infiltrati da miliziani jihadisti armati e violenti che entrarono nel paese prevalentemente attraverso la Turchia.
Questi combattenti islamici trasformarono le manifestazioni di piazza in veri e propri scontri armati.
C’è una data simbolica che segna questo passaggio: è il 6 luglio 2011 ovvero il giorno in cui l’ambasciatore americano Ford si fece fotografare tra le fila dei ribelli armati di Hama.
Per anni i soldati del SAA sono stati dipinti dalla stampa mainstream come “massacratori del proprio popolo”. Ci è stato raccontato che l’esercito è stato lo strumento utilizzato dal governo per reprimere la spontanea richiesta di democrazia da parte della società civile siriana.
La realtà è che il SAA ha fatto quello che avrebbe fatto qualsiasi altro esercito occidentale se posto nelle medesime condizioni.
Oggi assistiamo alla repressione brutale da parte del governo francese delle manifestazioni dei gilet gialli.
Si contano alcuni morti e centinaia di feriti e stiamo parlando della “democraticissima” Francia.
Immaginiamo che queste manifestazioni, in molti casi violente, ad un certo punto vengano infiltrate da jihadisti armati e supportati da paesi stranieri che intendono sovvertire le istituzioni francesi.
Supponiamo poi che queste milizie inizino a sparare sulle forze dell’ordine dando il via a scenari di guerriglia urbana in diverse città della Francia. A quel punto cosa dovrebbe fare il governo francese?
Ecco, la stessa domanda se la pose il governo siriano quando nel 2011, sul proprio territorio, si verificò uno scenario analogo.
Quando nel 2016 mi recai per la prima volta in Siria e vi rimasi per oltre un mese, visitai le campagne circostanti la città di Tartous.
Quel paesaggio di struggente bellezza aveva un che di inquietante.
All’inizio non seppi dire esattamente cosa fosse, ma ben presto lo capii.
Erano le immagini dei martiri.
Campeggiavano in ogni villaggio, fuori da ogni casa. Erano i volti dei soldati del SAA morti in guerra. C’era un’immagine, o anche più di una, al di fuori di ogni abitazione. Ragazzi di età compresa tra i 18 e i 30 anni uccisi, in molti casi trucidati, dalla soldataglia terrorista. C’erano dei muri in cui queste effigi erano affisse a centinaia.
Per le strade si vedevano prevalentemente donne, vecchi e bambini. In molti casi la percentuale degli uomini del villaggio uccisi in guerra raggiungeva picchi del 70%.
Molti di loro erano stati torturati a morte, altri erano stati decapitati e la testa esposta da qualche parte quando non utilizzata per foto in posa.
Un’intera generazione decimata.
In uno dei paesini intervistai Fadi, un giovane soldato mutilato da una granata esplosa durante una delle cosiddette “manifestazioni spontanee e pacifiche”. Aveva subito otto interventi chirurgici, e comunque si riteneva fortunato rispetto al collega polverizzato dall’esplosione.
Passai poi nella casa della famiglia di un tenente ucciso da un raid aereo ad opera della coalizione a guida statunitense. Il 17 settembre 2016 raid americani colpirono le postazioni del SAA sulle alture dello Jabal al-Thardah nei pressi dell’aeroporto militare di Deir ez-Zour.
La città era cinta d’assedio da parte dell’Isis dal 2013. Veniva rifornita di viveri, medicinali e forze fresche soltanto attraverso un ponte aereo.
Dopo mesi di intensi scontri il SAA era riuscito finalmente a riprendere possesso delle alture utilizzate dall’Isis per bombardare dall’alto la zona dell’aeroporto.
A quel punto accadde l’impensabile: un raid statunitense bombardò l’avamposto causando la morte di almeno 90 soldati e il ferimento di non meno di 100.
La giustificazione del comando USA fu che i soldati del SAA erano stati confusi con le milizie del califfato.
Fatto sta che da quel momento l’Isis riprese il controllo della postazione e poté ricominciare a bombardare la zona dell’aeroporto dall’alto.
Sempre nella zona di Tartous visitai un centro per IDPs (sfollati interni).
Dalle nostre parti si faceva un gran parlare dei rifugiati che scappavano dalla guerra, ma nessuno si stava occupando dei milioni di sfollati interni che, a lasciare il proprio paese, non ci pensavano minimamente.
Nessuno all’epoca volle comprare le mie immagini: mi si rispondeva che la cosa interessante era la rotta balcanica dei rifugiati.
La realtà era che la stragrande maggioranza dei siriani veniva sfollata dai luoghi dei combattimenti e alloggiata in strutture governative.
Non appena le condizioni lo consentivano, veniva loro permesso di ritornare alle loro case.
Spesso, a causa degli intensi combattimenti, quelle case non esistevano più.
È stato, ad esempio, il caso della parte vecchia di Homs.
Ma anche lì trovai persone che stavano già ricostruendo le loro case e tentando di riaprire le attività.
Era il caso del barbiere di Homs, uno dei primi a riaprire la bottega, o di una famiglia che, dopo essere stata sfollata cinque volte, aveva finalmente potuto far ritorno nella propria abitazione.
Tutte storie che nessuno si era preso la briga di raccontare.
Il messaggio che doveva essere mandato era che i civili sirani fossero tutti in fuga dal loro paese e che il governo fosse oramai privo di qualsiasi sostegno popolare.
Ora sono appena rientrato dopo un mese di lavoro nella provincia di Idlib e nella città di Deir ez-Zor.
La situazione è abbastanza stabile e le ostilità sono cessate un po’ ovunque.
Nei pressi di Idlib ho visitato i villaggi di Skelbieh e di Mahardeh. Si tratta di due realtà abitate in maggioranza da cristiani.
Qui sono entrato in contatto con le milizie lealiste dell’NDF, combattenti volontari che hanno imbracciato le armi per difendere i loro villaggi dalla minaccia jihadista.
Poche settimane prima del mio arrivo colpi di mortaio sparati dalla città di Idlib avevano colpito una scuola e diverse abitazioni. I segni sono ancora evidenti.
Tra le tante storie che ho incrociato in questa zona una in particolare mi ha colpito profondamente.
È quella di George, un combattente dell’ NDF, che si divide tra una postazione di artiglieria e la sua bottega di sarto.
Comanda una piccola postazione dotata di due pezzi di medio calibro (uno addirittura risalente alla prima guerra mondiale) e, appena finito il servizio, salta sulla motocicletta per recarsi a bottega e riprendere a cucire e tagliare da dove aveva finito il giorno prima.
Potrei citare anche il leggendario comandante Simon Alwakeel un facoltoso imprenditore di Mahardeh che ha dilapidato la fortuna accumulata con l’impresa edile di famiglia per organizzare la milizia posta a difesa della sua città.
Ferito più volte (ho visto una radiografia che mostrava una pallottola giunta ad un millimetro dalla sua colonna cervicale), pluridecorato, è sempre in prima linea quando si tratta di guidare una missione che comporti un qualche pericolo.
Dalla provincia di Idlib mi sono poi spostato nella città di Deir ez-Ezzor.
Ho ricevuto il permesso eccezionale di visitare la sponda est dell’Eufrate appena liberata dalla presenza dell’Isis: l’emozione, appena sceso dalla chiatta donata dal governo iraniano sull’altro lato del fiume, è stata indescrivibile.
Nonostante in quell’area si sia combattuto fino a pochissime settimane fa, la situazione appare del tutto sotto controllo.
La presenza di militari del SAA è massiccia così come quella dei check point data la possibile presenza di cellule dormienti e il rischio di attentati con autobombe; proprio mentre seguivo i lavori di manutenzione di una trincea è stato rinvenuto un ordigno artigianale lasciato appositamente in quell’area per fare vittime tra i militari. Nonostante la zona sia stata in gran parte sminata, si parla di un’altissima percentuale di ordigni disseminati un po’ ovunque.
Il fatto straordinario durante questa missione è stata la possibilità di seguire da embedded la vita dei soldati nella prima linea di fronte alle postazioni curde dell’SDF e alla base americana situata nei pressi e addirittura di poter dormire con le truppe al fronte.
Documentare la loro vita quotidiana e sentire dalla loro viva voce i racconti dell’assedio è stata un’esperienza incredibile, per non parlare dei video che mi hanno mostrato girati da loro stessi durante i combattimenti.
Visi giovani di bravi ragazzi, strappati troppo presto dai loro studi o dalle loro attività per combattere una guerra all’ultimo sangue durante un assedio che è durato quattro interminabili anni.
Non c’è stata scelta per nessuno, l’alternativa era vivere o morire.
Le foto di quei giorni riportano visi scavati, occhi stanchi, barbe lunghe, divise logore.
Estati a 50°, immersi in nuvole di zanzare portatrici di leishmaniosi.
Alì, uno di loro, è il ragazzo della porta accanto: magro, educatissimo, parla sussurrando.
A vederlo non riesci ad immaginare che abbia trascorso quattro anni in quell’inferno. Eppure c’è la memoria del suo cellulare a testimoniare tutto.
Le macerie, i colpi di artiglieria, la paura dei cecchini, gli ordigni disseminati ovunque.
E poi le ferite: non si trova un soldato, che abbia combattuto durante l’assedio, a non aver riportato almeno una cicatrice per una pallottola o una scheggia di granata.
Questi ragazzi girano per la città salutati da tutti come eroi, “altro che carnefici del loro popolo”.
Un funzionario del WFP (World Food Programme), in missione in città, mi ha raccontato di quando, durante l’assedio, rifornivano la città di cibo sganciando gli aiuti umanitari dal cielo.
Gli ho chiesto se qualche media internazionale si fosse rivolto all’agenzia per avere informazioni sullo stato della città in quel periodo.
La sua risposta è stata lapidaria: nessuno. Ci chiedevano solo di Raqqa dove operavano le forze della coalizione a guida USA.
Quello che poi ha aggiunto è a dir poco agghiacciante: nessuno di noi è libero di parlare con i media; o meglio si può parlare ma, se si dice qualcosa non concordato in anticipo, il rischio è quello di essere rimossi da tutti gli incarichi.
E poi ci raccontano la favola che il nostro è il mondo libero: funzionari delle Nazioni Unite che non sono liberi di raccontare ai media quello che testimoniano durante le missioni, pena la rimozione dall’incarico o la cessazione dei fondi per le missioni da parte dei paesi membri.
Infatti poco dopo aggiunge che anche i progetti umanitari seguono iter determinati dall’agenda politica.
Il budget è determinato annualmente e i paesi membri delle Nazioni Unite posso decidere di ritirare i fondi se i progetti non sono in linea con l’agenda.
Pertanto molti progetti su Raqqa e pochissimi su Deir ez-Zour. Nonostante ciò Raqqa versa in condizioni catastrofiche e non è ancora stata resa sicura, mentre Deir ez-Zour è quasi completamente sicura e i cittadini hanno già iniziato a farvi ritorno e a riaprire le loro attività.
Persino sulla sponda est dell’Eufrate le attività hanno cominciato a riaprire.
Vorrei chiudere questo breve resoconto con la testimonianza più forte di questo viaggio.
Il più grande cruccio per un fotoreporter sono le foto che non si è riusciti a scattare. Rimangono in testa come un tarlo e s’accompagnano indelebili nella memoria.
Per questo ad un certo punto ricorri ad altri linguaggi espressivi quali il documentario e la scrittura, che ti permettono in alcuni casi di aggirare il problema delle foto non scattate.
Ero a cena con i restauratori del museo di Damasco che stanno lavorando alla ricostruzione delle opere sfregiate dalla furia iconoclasta dei miliziani dell’Isis.
Due di loro parlavano un buon italiano avendo studiato restauro a Firenze. Al tavolo era presente anche il fidanzato di una restauratrice.
Parlava un perfetto italiano con accento genovese avendo studiato teoria musicale al conservatorio di Genova.
Tra una cosa e l’altra mi disse che aveva dovuto lasciare l’insegnamento al conservatorio di Damasco per arruolarsi nell’esercito: sette lunghissimi anni di guerra si era fatto quel ragazzo.
Ora era seduto accanto a me e per giunta parlava un italiano fluente, impeccabile.
Dato un mio precedente lavoro documentario sul Teatro dell’Opera e del Balletto di Donetsk, mi sembrava una perfetta occasione per ampliare un mio percorso personale di documentazione sul rapporto tra arte e guerra.
Pertanto gli chiesi se fosse disposto a rilasciarmi una intervista video nella quale potesse raccontare i sette anni passati al fronte: quello che vado ricercando da tempo è lo sguardo di animi sensibili educati all’arte sugli orrori della guerra.
La sua risposta, con mia grande sorpresa, è stato un secco no; poi ha subito aggiunto che in realtà non aveva mai pensato a questa eventualità.
Dopo un frammento di tempo che mi è sembrato durare un’eternità, durante il quale ha puntato su di me i suoi occhi accesi ma nello stesso tempo smarriti come quelli di un animaletto del bosco braccato, ha aggiunto che in quello che si porta dentro non c’è nulla di bello da raccontare, che certe esperienze vanno dimenticate al più presto, se si vuole sopravvivere.
“Ho perso quasi tutti i miei amici in questa guerra, ora voglio solo guardarmi avanti, perché se mi guardo indietro, poi non trovo la forza di stare a questo mondo. Cambiamo argomento per cortesia”.
All’inizio pensai che la mancata intervista fosse l’ennesima “foto non scattata”.
Ho riflettuto a lungo su questa breve conversazione, per tutta la durata della mia permanenza in Siria.
Alla fine sono giunto alla conclusione che questa “foto mancata” fosse in realtà l’immagine più appropriata di questo conflitto.
Anzi, in generale credo che sia l’immagine più giusta per rappresentare qualsiasi conflitto: un qualcosa di così orrendo, di così atroce, che non esistono parole adeguate per raccontarlo.
Solo chi l’ha vissuto in prima persona può capirlo e in quel caso basta un incrocio di sguardi per intendersi.
Ma a te, che non c’eri, che non hai udito quelle urla strazianti, che non hai visto i corpi mutilati degli amici con i quali fino a cinque minuti prima scherzavi, che non hai sentito il fischio prima e poi il rumore dell’esplosione, che non sei stato costretto a privare un altro essere umano della vita, cosa ti devo dire?
È in quel silenzio, in quell’indicibilità, che si annida tutto l’orrore della guerra.
Se oggi le guerre proseguono incessanti significa che di guerra si è parlato troppo e male. Alcuni ne hanno restituito un’immagine fascinosa, altri l’hanno mistificata confondendo le vittime con i carnefici per condizionare l’empatia del pubblico.
La guerra colpisce i civili ma prima ancora distrugge la vita dei soldati: di quelli che cadono in battaglia, di quelli che rimangono mutilati, ma anche di quelli che sopravvivono apparentemente integri.
Ricordiamocene sempre prima di dare giudizi, in particolar modo teniamolo bene a mente prima di parlare senza cognizione di causa dell’Esercito Arabo Siriano, che oggi siede incontrovertibilmente dalla parte giusta della Storia.