FOMENTA E DOMINA

Dietro la crisi ucraina c’è un preciso progetto statunitense: prendere Kiev per ridimensionare le ambizioni regionali e globali di Mosca. Storia di una rivolta pianificata e delle armi utilizzate da Obama per ribadire al mondo chi comanda davvero.
di Dario FABBRI
LIMES APRILE 2014

1. L’equilibrio di potenza è la cifra della dottrina Obama. A dispetto della vulgata giornalistica che lo vuole restio a intervenire sulla scena internazionale, se non addirittura fautore di un isolazionismo mascherato, in realtà il presidente americano persegue i classici dettami della politica dell’equilibrio. Frenato dai postumi della crisi economica e dall’avversione dell’opinione pubblica per ogni avventurismo militare, Barack ha preferito accantonare l’eccezionalismo dei padri fondatori per adottare la strategia che fu per secoli della corona britannica: impedire l’emergere di una nazione in grado di dominare la propria regione di appartenenza e potenzialmente di insidiare il primato della superpotenza.
In quest’ottica la tattica più efficace, e meno dispendiosa, è acuire le tensioni tra i principali attori regionali, obbligandoli a concentrarsi sulle questioni continentali e ad abbandonare le ambizioni globali. Perfino nell’Asia-Pacifico, quadrante cruciale per le sorti del pianeta, dove Washington pratica il containment della Cina sostenendo la corsa agli armamenti di giapponesi, sudcoreani e australiani. In Europa è la Russia ad aver raggiunto una pericolosa posizione di forza. Grazie alla sua scaltrezza, unita alla compiacenza della Germania e alla distrazione degli Stati Uniti, nell’ultimo decennio Putin ha pressoché neutralizzato il cosiddetto «estero vicino» e legato al proprio benessere il Vecchio Continente dipendente dal gas siberiano. Libero di scrutare l’orizzonte, il capo del Cremlino ha potuto dedicarsi a questioni di planetaria rilevanza, provocando alla Casa Bianca più di un imbarazzo, in Siria come in Egitto, quanto con la concessione dell’asilo al fuggitivo Edward Snowden.
Matura così la necessità di scalfirne le certezze e provocare al contempo una spaccatura tra Mosca e Berlino. A metà 2013 gli analisti statunitensi individuano nell’embrionale crisi ucraina l’occasione per colpire Putin e costringere la Merkel a scegliere tra la fedeltà atlantica e la sua audace Ostpolitik. L’optimum si raggiungerebbe se l’Unione Europea cadesse nella trappola di integrare l’Ucraina – un fardello economico capace di sferrare il colpo di grazia alla già traballante architettura comunitaria – ma Obama si accontenta di sottrarre il paese all’influenza russa. Ne scaturisce uno scontro combattuto a colpi di operazioni coperte, propaganda mediatica e ritorsioni finanziarie che in poche settimane fa scendere sull’Europa un clima da guerra fredda e pone Russia e Germania sulla difensiva.
2. La scelta americana di passare al contrattacco in Ucraina è dettata da ragioni di carattere simbolico, strategico e congiunturale. Nell’immaginario russo «la nazione di confine» ricopre un ruolo eccezionale: è a Kiev che nel IX secolo nasce la Rus’, antesignana della Russia attuale, ed è con il battesimo nelle acque del fiume Dnepr che un secolo più tardi Vladimir il Grande impone il cristianesimo ai suoi sudditi. Sul piano strategico il controllo dell’Ucraina consente a Mosca di allontanare la prima linea di difesa dall’heartland nazionale, per conformazione orografica da sempre esposto alle invasioni straniere, e di mettere nel mirino l’Europa centrale. Inoltre, eredità della rivoluzione arancione del 2004, specie nelle regioni occidentali del paese Washington controlla un folto numero di organizzazioni non governative che, in caso di rivolta popolare, possono fungere da avanguardia per un’azione tesa a destabilizzare l’esecutivo ucraino.
Infine nel 2010 è stato eletto presidente Viktor Janukovyč, despota corrotto e maldestro che gioca su più tavoli nel tentativo di lucrare sulle scelte di politica estera e sul cui conto l’amministrazione Usa possiede informazioni esclusive. Nello specifico, a curare i suoi interessi americani è la società di lobbying di John Podesta1, attuale consigliere straordinario di Obama. E dal 2005 fino all’improvvida fuga dello scorso febbraio, il principale consulente politico di Janukovyč è stato lo statunitense Paul Manafort2, titolare di un’azienda di consulenza elettorale che gestisce assieme a Rick Davis, già spin doctor di John McCain, a sua volta destinato nella commedia ucraina al ruolo di novello Charlie Wilson.
L’antefatto risale all’estate del 2013. Il progetto obamiano di minare dall’interno la tenuta della Federazione Russa è naufragato: troppo risicate le risorse a disposizione della Cia e troppo complicato eludere il sofisticatissimo servizio di intelligence del Cremlino (Fsb). Snervato dalle continue intimidazioni, per la prima volta l’ambasciatore Michael McFaul comunica ai superiori l’intenzione di lasciare Mosca per far rientro in patria. Al contrario Putin, rincuorato dal consolidamento del fronte domestico, da alcune settimane è tornato a viaggiare all’estero. A fine luglio vola a Kiev per ribadire che non permetterà all’Ucraina di uscire dall’orbita russa e ai primi di settembre si serve dell’accordo relativo allo smaltimento delle armi chimiche per impedire il rovesciamento di al-Asad.
È in quei giorni che la Casa Bianca medita la svolta. Presto Janukovyč dovrà decidere se aderire all’Unione doganale oppure firmare un accordo di associazione con l’Unione Europea e Barack è sicuro di poter beneficiare di un eventuale stallo.
Con una scelta assai rilevante, il 18 settembre nomina assistente segretario di Stato per gli Affari eurasiatici Victoria Nuland, diplomatico di professione influenzata dal pensiero neoconservatore, la cui carriera è segnata da frequenti avventure oltrecortina. Nei primi anni Ottanta trascorre otto mesi su un peschereccio sovietico al largo dell’Oceano Pacifico, sul quale sviluppa una passione per la storia e la lingua russa, oltre che per la vodka Stoličnaja. Nell’agosto del 1991 si mischia tra la folla moscovita durante le ore più concitate del golpe organizzato per deporre Gorbačëv e negli anni Novanta, nelle vesti di capo di gabinetto del vicesegretario di Stato Strobe Talbott, sovrintende all’allargamento della Nato verso est.
A lei Obama affida il compito di coordinare il lavoro delle numerose ong operanti in Ucraina, quinta colonna in grado di intercettare e indirizzare gli umori della popolazione filoccidentale. Anche le ong tedesche sono molto attive – in particolare la fondazione Konrad Adenauer che formando Vitalij Klyčko ha creato in laboratorio il suo candidato di riferimento – ma gli americani non si fidano di Berlino e preferiscono muoversi autonomamente. Come rivelato lo scorso dicembre dalla stessa Nuland, dalla fine della guerra fredda gli Stati Uniti hanno speso oltre 5 miliardi di dollari per «rendere l’Ucraina una nazione sicura e democratica»3 e secondo quanto riferito alla commissione Esteri del Senato dal vicesegretario di Stato per i Diritti umani, Tom Melia, di questi quasi un miliardo4 è finito nelle casse delle organizzazioni non governative. Soltanto nel 2012 il National Endowment for Democracy, l’ente collegato al Dipartimento di Stato incaricato di promuovere la democrazia a livello globale, ha finanziato in Ucraina ben 65 progetti5.
Tra le ong maggiormente presenti nell’ex paese sovietico figurano: Open Society Foundations del magnate George Soros, che nel 2012 ha speso da queste parti oltre 10 milioni di dollari6; Freedom House, qui collegata all’Institute for Mass Information; il National Democratic Institute for International Affairs; la Millennium Challenge Corporation; l’International Center for Journalists, parzialmente sovvenzionato da Bill Gates e curatore del progetto YanukovichLeaks.
Allo stesso tempo l’amministrazione Usa mantiene contatti con gli oligarchi più influenti, soprattutto quelli che si oppongono all’orientamento filorusso del governo di Kiev. A settembre Bill e Hillary Clinton sono gli ospiti d’onore della conferenza organizzata annualmente a Jalta dal tycoon dell’acciaio Viktor Pinčuk per rinsaldare i legami tra Ucraina e Occidente. Nello stesso periodo emissari dell’ambasciata statunitense si incontrano con il re del cioccolato Petro Porošenko, i cui prodotti sono banditi nella Federazione Russa, e con i finanzieri Ihor Kolomojs’kyj e Kostjantin Ževago. Rimangono al fianco di Janukovyč i due uomini più ricchi della nazione, Rinat Akhmetov e Dmytro Firtaš, ma col tempo entrambi si arrenderanno al misto di lusinghe e minacce somministrato da Washington.
L’offensiva entra nel vivo a fine novembre, quando centinaia di persone iniziano a radunarsi in piazza Indipendenza a Kiev per protestare contro la decisione di Janukovyč di respingere l’offerta di Bruxelles. Le ong si adoperano per coinvolgere tutti gli strati della popolazione e tra l’11 e il 14 dicembre Nuland e i senatori John McCain e Chris Murphy giungono sul posto per manifestare la propria solidarietà al movimento di Jevromajdan. Seguendo l’esempio delle cosiddette donut dollies, le volontarie incaricate di tenere alto il morale delle truppe statunitensi impegnate nella seconda guerra mondiale, in Corea e in Vietnam, Nuland scende in piazza per regalare panini e biscotti ai manifestanti antigovernativi e ai poliziotti presenti. Al Cremlino non sfugge il valore simbolico dell’evento. «È stato un gesto umiliante: degli ucraini che mangiano da mani americane!»7, commenterà sdegnato l’ambasciatore russo presso le Nazioni Unite, Vitalij Čurkin.
In seguito Nuland si incontra con Akhmetov, al quale paventa l’intenzione di sanzionare gli interessi degli oligarchi collusi con il governo nel caso in cui la protesta fosse sedata nel sangue. McCain invece prima arringa la folla, annunciando che «l’America è dalla parte degli ucraini che vogliono il cambiamento»8, quindi va a cena con il fondatore della formazione ultranazionalista di Svoboda, Oleh Tjahnybok. L’inettitudine di Janukovyč, in bilico tra repressione e compromesso, favorisce il perdurare della protesta, mentre sul terreno si intensificano la presenza dell’intelligence americana e la competizione tra Stati Uniti e Germania che sostengono rispettivamente il principale esponente dell’Unione panucraina Bat’kivščyna (Patria), Arsenij Jacenjuk, e il capo del partito Udar (Colpo), Vitalij Klyčko. Obama è convinto che la Merkel non abbia intenzione di rompere con Putin, ma che piuttosto stia sfruttando gli eventi ucraini per bilanciare a suo favore l’intesa bilaterale e proporsi come leader indiscusso dell’Europa orientale.
Così ai primi di febbraio Nuland alza il telefono per recapitare un chiaro avvertimento al governo tedesco e arrogare agli Usa il ruolo di riferimento esterno della protesta. In barba a ogni precauzione tecnica, in una nazione monitorata capillarmente dallo spionaggio russo, il diplomatico utilizza una comune linea cellulare per chiamare a Kiev l’ambasciatore Geoffrey Pyatt e parlare apertamente della posizione americana. «Non credo che Klyčko debba entrare nel governo. (…) Solo l’Onu può sistemare le cose, che l’Ue si fotta»9, dice Nuland con ostentato candore, apostrofando con un nomignolo (Jac) Jacenjuk e servendosi dello slang per spiegare che il vicepresidente Biden è pronto a complimentarsi con Janukovyč se collaborerà con l’opposizione (he’s willing for an attaboy). Come ampiamente previsto, in poco tempo la conversazione finisce prima su YouTube e poi sull’account Twitter di Dmitrij Loskutov, un collaboratore del vice premier russo. Il Dipartimento di Stato accusa Mosca d’aver giocato sporco10, ma in privato si rallegra per un piano ben riuscito. Si tratta della prima operazione di false flag in una vicenda disseminata di manovre coperte.
Intanto l’entrata in scena di gruppi paramilitari collegati ai servizi occidentali, come Pravyj Sektor (Settore di destra) e l’Assemblea nazionale ucraina Samooborona (Autodifesa), pareggia la ferocia dei berkut, i reparti antiterrorismo del ministero dell’Interno, e determina il definitivo precipitare della situazione. Il 20 febbraio cecchini non identificati sparano sulla folla, mettendo in fuga le forze di polizia e provocando la morte di decine di persone. Secondo quanto riferito dal ministro degli Esteri estone, Urmas Paet, all’alto rappresentante per la Politica estera dell’Ue, Catherine Ashton11, ad aprire il fuoco sarebbero stati elementi legati ai manifestanti con l’obiettivo di far ricadere la colpa sull’esecutivo.
Nelle stesse ore i canali televisivi Ukrajina e Inter, appartenenti rispettivamente ad Akhmetov e Firtaš, iniziano a trasmettere reportage favorevoli a Jevromajdan. È il segnale della fine. Il 21 febbraio Janukovyč sottoscrive con gli esponenti dell’opposizione un accordo che prevede elezioni anticipate, un esecutivo di solidarietà nazionale e il ripristino della costituzione in vigore nel 2004. La piazza però respinge il compromesso e profittando del caos e della complicità degli oligarchi il parlamento nomina Arsenij Jacenjuk primo ministro ad interim e vota all’unanimità la procedura di impeachment nei confronti di Janukovyč, che fugge in Russia.
3. A rivoluzione compiuta gli sforzi americani si concentrano sull’inevitabile risposta russa, potenzialmente in grado di annullare il vantaggio acquisito. Già il 21 febbraio la Casa Bianca si serve del New York Times per comunicare con il Cremlino. Dalle colonne del quotidiano «anonimi funzionari dell’amministrazione federale» invitano Putin ad accettare il fait accompli, in cambio della normalizzazione dei rapporti bilaterali e di un improbabile accordo commerciale12. A destare preoccupazione è la possibilità che la Russia – impegnata con oltre 150 mila uomini in un’esercitazione militare oltreconfine – invada l’Ucraina e comprometta la fiducia che le nazioni dell’Europa orientale ripongono nella deterrenza garantita dagli Stati Uniti.
Tra il 22 e il 27 febbraio rapporti riservati della Cia, della Defense Intelligence Agency (Dia), l’organo di spionaggio estero del Pentagono, e dell’Ufficio del direttore dell’intelligence nazionale (Odni) definiscono imminente «un’azione» realizzata da reggimenti «speciali»: citano i mercenari della Vnevedomstvennaja Okhrana e gli specnaz, ma ammettono di non sapere quali regioni ne saranno interessate. A differenza del resto d’Europa, la Russia sfugge al controllo dell’Nsa e nonostante i 300 mila dollari spesi dal leggendario Office of Net Assessment del Pentagono per studiare il linguaggio del corpo di Putin13, nessuno sa prevedere con certezza le sue mosse. Nemmeno Silvio Berlusconi, il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman o il presidente kazako Nursultan Nazarbaev, contattati nel frattempo dal Dipartimento di Stato per avere impressioni su cosa stia per accadere. In piena nebbia di guerra Obama si convince che «il bullo» stia per invadere l’Ucraina orientale e la sera del 28 febbraio si presenta davanti alle telecamere per minacciarlo «di gravi ritorsioni»14.
Tuttavia il giorno seguente l’occupazione russa della Crimea gli permette di tirare un (parziale) respiro di sollievo. Al netto delle rimostranze ufficiali, Barack considera un sacrificio tollerabile barattare la penisola abitata in maggioranza da russi con il nuovo status quo imposto al resto del paese. Peraltro la patente violazione della sovranità ucraina pone adesso tedeschi e cinesi in una posizione di notevole imbarazzo, costringendoli a scegliere tra la volontà di preservare un’alleanza strategica e la necessità di condannare un atto che almeno formalmente lede i princìpi della loro politica estera.
Il punto è impedire a Putin di inghiottire il resto dell’Ucraina. Inizialmente la Casa Bianca pensa di inibirne le intenzioni attraverso l’imposizione di sanzioni economiche concertate con l’Unione Europea. L’illusione svanisce in seguito alle telefonate avute con i leader del Vecchio Continente e agli incontri con i rappresentanti delle associazioni industriali d’America. La Germania è pronta a censurare verbalmente l’accaduto e a raffreddare la cooperazione militare, ma non vuole scatenare la rappresaglia energetica del Cremlino e perfino il fido alleato Cameron si rifiuta di privare la City londinese degli ingenti capitali russi.
Dal canto loro le multinazionali statunitensi operanti in Russia – su tutte ExxonMobil, Boeing, Ford – vogliono impedire che, in caso di misure punitive imposte unilateralmente dagli Usa, i concorrenti europei assorbano la loro fetta di mercato. Così Obama si accontenta, a cavallo del referendum per l’indipendenza della Crimea, di approvare sanzioni largamente simboliche che colpiscono alcuni membri dell’entourage presidenziale, nonché Bank Rossija, l’istituto di San Pietroburgo legato a Gazprom, ma che non hanno alcun impatto concreto.
Le armi più efficaci in possesso degli Stati Uniti si rivelano l’aggressione mediatica e la speculazione finanziaria. La diffusione planetaria e il prestigio riconosciuto ai media d’Oltreoceano consentono alla Casa Bianca di respingere agevolmente le accuse di interferenza e di bollare come barbara e anacronistica la reazione russa, sebbene questa sia stata pressoché incruenta e possa essere considerata una declinazione della responsibility to protect. Contemporaneamente le manovre speculative infliggono danni ragguardevoli alla già fragile economia russa. Rispetto ai tempi della guerra fredda, oggi l’ex superpotenza comunista aderisce (suo malgrado) al Washington Consensus e il governo federale è doppiamente esposto all’umore dei mercati perché azionista di maggioranza delle principali aziende nazionali.
Agli Usa bastano gli strumenti convenzionali della politica monetaria e finanziaria – tapering, diffusione del panico fra gli investitori, valutazione della solvibilità – per colpire l’avversario. Non a caso il lunedì successivo all’invasione della Crimea, l’indice Rtsi della Borsa di Mosca scende di ben 12 punti, bruciando quasi 60 miliardi di dollari, la stessa somma spesa per organizzare le Olimpiadi di Soči. E nelle settimane seguenti, le newyorkesi agenzie di rating Fitch e Standard & Poor’s rivedono al ribasso l’outlook della Federazione, portandolo da stabile a negativo, inserendo l’attuale congiuntura geopolitica tra le motivazioni della decisione. La Banca centrale russa prova a cautelarsi ritirando tra il 26 febbraio e il 12 marzo dalla sede della Federal Reserve di New York 118 miliardi di dollari in buoni del Tesoro15, ma si tratta di una partita palesemente impari.
Anche per questo il bilancio della crisi arride agli Stati Uniti. La Germania non sembra intenzionata a stravolgere la propria strategia e l’Europa non dispone dei mezzi finanziari e della volontà politica necessari a mantenere stabilmente l’Ucraina nel campo occidentale. Inoltre la Russia ha riconquistato la Crimea, rettificando il torto perpetrato sessant’anni fa da Khruščëv e, toccata sul vivo, proverà adesso a ostacolare gli Stati Uniti su dossier internazionali di primaria importanza: dalla trattativa per il programma nucleare iraniano alla guerra civile siriana, fino al prossimo ritiro Nato dall’Afghanistan.
Tuttavia l’iniziativa americana, realizzata magistralmente, ha colto nel segno: Putin è impegnato in una battaglia di retroguardia, costretto a difendersi piuttosto che a inseguire traguardi di grande respiro; la Merkel ne ha inevitabilmente disapprovato l’operato e tra Mosca e Pechino c’è stato un animato confronto sul tema. Con il minimo sforzo politico, economico e di intelligence la Casa Bianca ha ottenuto ciò che voleva. «La Russia è soltanto una potenza regionale e non può rappresentare una minaccia globale»16, ha spiegato Obama il 25 marzo, quasi a illustrare la sua dottrina e a dichiarare compiuta la missione ucraina. In nome dell’equilibrio di potenza.